SALVATORE PATTI

 

L’efficacia probatoria dei «nuovi» documenti informatici.

 

 

 

1. La normativa sul documento informatico antecedente al d.lgs. 23 gennaio 2002, n. 10. – 2. Il documento informatico non sottoscritto: l’efficacia probatoria di cui all’art. 2712 c.c. – 3. Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica: la sua rilevanza in tema di forma e di prova. – 4. Il documento informatico sottoscritto con firma digitale o con altro tipo di firma elettronica avanzata: l’efficacia di «piena prova». – 5. Segue. L’efficacia di «piena prova fino a querela di falso» e l’utilizzazione della chiave.

 

 

 

1. Il decreto legislativo del 23 gennaio 2002, n. 10, che ha dato attuazione alla Direttiva 99/93/CE in materia di firme elettroniche, ha determinato alcune importanti innovazioni rispetto alla normativa pur di recente introdotta nell’ordinamento italiano, consentendo tra l’altro di superare un contrasto dottrinale circa l’efficacia probatoria del documento informatico.

Per meglio comprendere il significato della nuova disciplina e soprattutto le ragioni e la portata delle innovazioni, sembra opportuno ricordare brevemente qual era il quadro normativo previgente.

Fino al momento dell’attuazione della suddetta direttiva l’efficacia probatoria del documento informatico era stabilita dall’art. 10 del Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa introdotto con D.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, che riprendeva la disposizione già contenuta nell’art. 5 del D.p.r. 10 novembre 1997 n. 513 («Regolamento recante criteri e modalità per la formazione, l’archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, a norma dell’art. 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59»). Precisamente, il terzo comma della norma citata prevedeva l’efficacia del documento informatico sottoscritto con firma digitale ed il primo comma quella del documento informatico privo di tale sottoscrizione.[1]

L’intervento del legislatore era servito quindi ad attribuire l’efficacia di scrittura privata al documento informatico sottoscritto con firma digitale, ed in particolare a stabilire l’equivalenza della firma digitale alla sottoscrizione prevista per gli atti e i documenti in forma scritta su supporto cartaceo, purché fossero rispettati i requisiti previsti dall’art. 10 dello stesso Regolamento. Al sistema di prova legale della paternità del documento basato sulla sottoscrizione si era aggiunta pertanto un’altra fattispecie di prova legale, e ciò secondo il modello della scrittura privata disciplinata nel codice civile. L’art. 10, terzo comma, del Testo unico attribuiva infatti al documento informatico l’efficacia di scrittura privata «ai sensi dell’art. 2702 del codice civile». Quest’ultima norma, come è noto, stabilisce che la scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale essa è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.[2] L’efficacia di «prova piena» fino a querela di falso, è stata in tal modo condizionata, dalla norma del codice, al riconoscimento di colui nei cui confronti la scrittura viene prodotta in giudizio oppure ad un equipollente legale del riconoscimento, consistente nella autenticazione della sottoscrizione compiuta dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato (art. 2703 c.c.).

Poiché, come ricordato, l’art. 10 del Testo unico stabiliva che il documento informatico, sottoscritto con firma digitale, aveva efficacia di scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 c.c., una parte della dottrina aveva sostenuto che l’efficacia di «piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta» fosse subordinata al verificarsi di uno dei due fatti a cui – come ricordato – la norma codicistica sulla scrittura privata subordina tale efficacia: precisamente riconoscimento oppure autenticazione della sottoscrizione.[3] Con riferimento a quest’ultima, e con piena corrispondenza al sistema della prova documentale accolto nel codice civile, l’art. 24, 1° comma, del Testo unico stabiliva (e stabilisce tuttora) che «si ha per riconosciuta, ai sensi dell’art. 2703 del c.c., la firma digitale, la cui apposizione è stata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato».

Il secondo comma della stessa norma indicava inoltre le caratteristiche della suddetta autenticazione, stabilendo tra l’altro che il pubblico ufficiale doveva accertare la validità della chiave utilizzata, mentre nulla era stato previsto per quanto concerne il riconoscimento, cioè l’altro presupposto a cui l’art. 2702 c.c. subordina l’efficacia di piena prova, ed il silenzio del legislatore doveva condividersi poiché la dichiarazione del soggetto che ammette la provenienza della firma non presenta alcuna differenza nel caso in cui essa non sia autografa bensì digitale.

Il richiamo legislativo degli articoli 2702 e 2703 c.c., e quindi il collegamento dell’efficacia di prova piena del documento informatico al sussistere degli stessi requisiti stabiliti per la scrittura privata, era stato tuttavia svalutato da altra parte della dottrina, che volendo evitare una «notevole complicazione della fattispecie probatoria» suggeriva un richiamo parziale all’art. 2702 c.c., e cioè limitato alla efficacia probatoria.[4] La preoccupazione, per certi versi condivisibile, era quella di far dipendere l’efficacia del documento informatico munito di firma digitale da una decisione di colui che appare autore del documento stesso. In altri termini, la regola codicistica, adeguata per il documento tradizionale munito di firma autografa (con tutte le incertezze ad essa legate), non era apparsa idonea ad assicurare l’auspicabile certezza e rapidità dei rapporti giuridici nel caso del documento informatico, caratterizzato dalla (presunta) sicurezza della paternità della firma.

Al fine di evitare una «complicazione» era stato quindi affermato che il richiamo dell’art. 2702 c.c., operato dal citato art. 10, doveva intendersi «parziale», cioè – come già ricordato – con esclusione della parte della norma relativa al riconoscimento. In verità, il chiaro dettato del legislatore – precisamente il riferimento all’(intero) art. 2702 c.c. – aveva fatto sorgere seri dubbi circa l’ammissibilità della suddetta interpretazione. In senso contrario, inoltre, era stato osservato che nel riconoscimento tacito della scrittura privata, fondato sull’onere del disconoscimento posto a carico della parte contro la quale la scrittura è prodotta, autorevole dottrina aveva individuato un «espediente cui s’è pervenuti per soddisfare un’esigenza di semplificazione nell’accertamento della paternità della scrittura privata».[5] Pertanto, la tesi secondo cui il richiamo dell’art. 2702 c.c. doveva intendersi «parziale», cioè con esclusione della parte della norma relativa al riconoscimento, conduceva, a ben vedere, ad un risultato di segno opposto rispetto a quello auspicato. Infatti, la parte che esibisce la scrittura (o il documento informatico), in base alla regola generale sull’onere della prova, sarebbe tenuta a provare la sua autenticità e quindi a proporre l’istanza di verificazione. Di conseguenza, il richiamo «monco» dell’art. 2702 c.c., se non si vuole altresì cancellare la norma dell’art. 2697 c.c., avrebbe avuto la conseguenza di far dipendere l’efficacia probatoria del documento informatico in ogni caso, e non soltanto nelle ipotesi di disconoscimento, dalla prova dell’autenticità della sottoscrizione, a carico della parte che intende utilizzarlo.

In altri termini, la ricostruzione del principio dimostra che esso fu introdotto per favorire colui che intende avvalersi del documento. Conseguentemente, la desiderata «cancellazione» della parte finale dell’art. 2702 c.c. avrebbe determinato – in mancanza di una norma specifica - un aggravamento, dal punto di vista probatorio, della posizione dell’attore che utilizza un documento informatico munito di firma digitale.

Dal sistema degli artt. 2702 c.c. e 215 c.p.c. risulta infatti un onere di disconoscimento che grava sulla parte contro la quale viene fatta valere la scrittura privata, poiché se la sottoscrizione non viene disconosciuta, essa si considera tacitamente riconosciuta.

Peraltro, nel caso di disconoscimento, la eventuale verificazione «informatica» appare più agevole di quella relativa alla firma autografa, dovendosi dimostrare semplicemente che la firma digitale apposta al documento è quella del soggetto nei cui confronti il documento viene fatto valere, e che l’aveva disconosciuta (art. 215 c.p.c.).

In definitiva, si osservava che anche nella fattispecie del documento informatico, l’onere del disconoscimento della sottoscrizione – risultante dal combinato disposto dagli artt. 2702 c.c. e 215 c.p.c. – facilitava la parte che produce il documento. Altrimenti, alla luce dell’intera normativa dettata in tema di prove, sarebbe gravato su di essa l’onere di provare, in ogni caso, l’autenticità della firma digitale.

 

 

2. Passando adesso all’esame della nuova normativa, l’art. 10, primo comma, del d. lgs. 23 gennaio 2002, n. 10, che disciplina «forma ed efficacia del documento informatico», stabilisce che il documento informatico ha l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2712 del codice civile, riguardo ai fatti ed alle cose rappresentate».[6]

La norma conferma quindi, anzitutto, la volontà del legislatore di collegare la disciplina del nuovo documento al sistema codicistico delle prove.

La fattispecie presa in esame è quella del documento informatico privo di firma digitale. La norma, in effetti, non contiene alcun riferimento alla mancanza della firma digitale, ma alla suddetta conclusione deve pervenirsi in base ad un raffronto con i commi successivi che disciplinano le ipotesi di documento informatico sottoscritto con firma digitale (o altro tipo di firma elettronica avanzata) o con firma elettronica.

L’efficacia probatoria, stabilita per relationem, è quella dell'art. 2712 c.c., cioè quella delle «riproduzioni meccaniche». La norma, che nel disegno del codice completa la disciplina dei documenti, come si legge nella Relazione al Codice civile del Ministro Guardasigilli, venne prevista «perché altrimenti il nuovo codice sarebbe apparso arretrato nel tempo e restio a ogni influsso di modernità», posto che «la prova documentale può anche essere costituita dalla riproduzione meccanica di fatti e di cose (riproduzioni fotografiche, cinematografiche, fonografiche e simili)». Naturalmente - si legge ancora nella Relazione - «l'efficacia probatoria qui deriva non soltanto dalla riproduzione in sé e per sé considerata, ma dal complesso della riproduzione e del riconoscimento (o non disconoscimento) della parte interessata, come deriva del resto, da un analogo complesso l'efficacia della scrittura secondo l'art. 2702».[7]

A tale articolo, in mancanza di una normativa specifica, si faceva riferimento per individuare la disciplina del documento informatico, mettendo in luce peraltro i suoi limiti e l’esigenza di un intervento del legislatore.

Il collegamento operato dalla norma in esame, e già presente nell’art. 10 del Testo unico, rende tuttavia attuale la considerazione secondo cui una disciplina meno «parsimoniosa» delle riproduzioni meccaniche sarebbe stata opportuna, trattandosi di un fenomeno di grande rilevanza pratica e destinato ad acquistare un rilievo sempre maggiore in connessione al continuo progresso della scienza.

Nonostante la stringatezza del dettato, che tra l'altro si riferisce a strumenti di riproduzione o di rappresentazione di fatti che prescindono dalla scrittura e, a volte, dalla stessa dichiarazione di un soggetto, l'art. 2712 c.c. costituisce peraltro una sorta di clausola generale o di norma di chiusura dettata all'interno della sezione del codice dedicata alla prova documentale.

Stabilendo che le riproduzioni meccaniche «formano piena prova» dei fatti e delle cose rappresentate, la norma prevede una fattispecie di prova legale della conformità delle riproduzioni ai fatti e alle cose che esse rappresentano. E' comunque sufficiente il disconoscimento di colui contro il quale esse sono prodotte perché sorga a carico di chi vuole fare valere le riproduzioni l'onere di provare la loro conformità ai fatti rappresentati. In definitiva, può parlarsi di prova legale nel senso che - in mancanza di disconoscimento - l'efficacia del mezzo di prova è sottratta alla libera valutazione del giudice.

Nonostante la lettera dell'art. 2712 c.c. induca a ritenere che, ai fini dell'attribuzione dell'efficacia di prova legale, sia sufficiente il mero atteggiamento di tipo omissivo o negativo (inerzia) della parte nei cui confronti il mezzo di prova viene fatto valere, una parte della dottrina afferma la necessità di un atto di natura positiva, cioè di un riconoscimento della conformità della riproduzione ai fatti rappresentati. In tal senso si rileva che la particolare forza probatoria non deriverebbe dall'efficacia rappresentativa della riproduzione ma dall'ammissione della parte dell'esistenza del fatto riprodotto, allegato dall'altra parte.[8]

La tesi riferita, tuttavia, non trova alcun fondamento nella lettera della norma né nelle linee del sistema. Soprattutto alla luce della contrapposizione con l'art. 2702 c.c., ove si prende in considerazione il riconoscimento, sembra invece corretto ritenere che l'art. 2712 c.c. - e così pure la norma in esame in tema di documento informatico - determini un onere di disconoscimento a carico della parte nei cui confronti la riproduzione (e quindi il documento informatico) viene fatta valere. Tale onere risulta analogo all'onere di contestazione che grava sulla parte rispetto ai fatti allegati dalla controparte. In caso di disconoscimento la riproduzione meccanica - e con essa il documento informatico - non acquista il valore di prova legale e può essere liberamente apprezzata dal giudice. L'art. 2712 c.c., infatti, così come prevede la regola relativa ai fatti non contestati, considera raggiunta la prova quando la parte nei cui confronti viene fatta valere la riproduzione meccanica non la disconosce. Da ciò non può desumersi, peraltro, che il disconoscimento - sufficiente per privare la riproduzione meccanica dell'efficacia di prova legale - faccia venir meno altresì il mezzo di prova, che rimane invece sottoposto alla valutazione del giudice.

In senso contrario è stato osservato che la riproduzione meccanica disconosciuta deve essere sottoposta alla stessa disciplina prevista per la scrittura privata disconosciuta, negando quindi qualsiasi efficacia probatoria.[9] Tale opinione non ci sembra tuttavia condivisibile poiché mentre nel caso della scrittura privata disconosciuta - se non si effettua un'ulteriore attività di verifica - non sopravvivono elementi in grado di contribuire alla formazione del convincimento del giudice, mancando ogni possibilità di confronto oggettivo tra ciò che risulta dal documento e la verità dei fatti rappresentati, nel caso delle riproduzioni meccaniche - grazie soprattutto alla più recente evoluzione tecnica - è spesso possibile un accertamento oggettivo e immediato della conformità dei fatti rappresentati e quelli accaduti. Analoghe considerazioni devono valere - a maggior ragione - per il documento informatico che presenti sufficienti requisiti per garantire l'identificazione del suo autore e la mancanza di alterazioni.

 

 

3. Una norma in tema di forma e di prova è contenuta nel secondo comma dell’art. 10. Per quanto riguarda la forma è previsto che il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta. Possono pertanto utilizzarsi documenti informatici muniti di firma elettronica, tra l’altro, ai fini dell’art. 1350 c.c.

Per quanto concerne la prova, viene stabilito che il documento è liberamente valutabile, tenendo conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza. La norma si ricollega quindi al principio generale della libera valutazione delle prove (art. 116 c.p.c.), con la precisazione, forse inutile, che nel compimento di tale valutazione occorre tener conto della «qualità» del documento informatico e della sicurezza che è in grado di garantire. Ci si trova comunque al di fuori del regime della prova legale.

Ancora, sul piano probatorio, il secondo comma della disposizione in esame stabilisce inoltre che il documento informatico sottoscritto con firma elettronica soddisfa l’obbligo previsto dagli articoli 2214 e seguenti del codice civile e di ogni altra analoga disposizione legislativa o regolamentare.

Con riferimento alla prima norma richiamata, dettata in tema di scritture contabili, possono ritenersi consolidati i risultati a cui in gran parte si era già pervenuti.[10]

Da tempo si discuteva, infatti, circa la possibilità di una regolare tenuta delle scritture contabili, in particolare del libro giornale, mediante i moderni supporti informatici. I libri contabili per potere «fare prova» devono essere «regolarmente tenuti»; e con riferimento alla loro vidimazione si afferma che il suo oggetto deve essere riconducibile al genere «libro». Questo termine, adoperato negli artt. 2214 e segg. c.c., indica tradizionalmente un certo numero di fogli di carta rilegati prima della scritturazione e tali quindi da consentire soltanto la scrittura manuale. Viceversa, ormai da diversi anni, le scritture contabili vengono frequentemente tenute mediante sistemi elettronici su modulo continuo. Quest'ultimo consiste in un foglio di carta unico - ma formato da molteplici parti di formato ridotto e separabili - sul quale vengono stampati i dati contabili elaborati da un calcolatore elettronico. Successivamente alla stampa è possibile che le sezioni predisposte vengano separate, in modo da formare dei fogli suscettibili di essere rilegati e di formare un libro.

Interpretando evolutivamente la normativa in materia, era stata prospettata l'ammissibilità del libro contabile elettronico, cioè di scritture contabili prive di supporto cartaceo, leggibili attraverso lo strumento elettronico, soggetto, a sua volta, ad una «vidimazione elettronica». Una tesi più prudente, pur ammettendo che la contabilità può essere tenuta mediante calcolatore elettronico, non negava del tutto la rilevanza del supporto cartaceo, consistente nel modulo continuo sopra descritto, sul quale possono essere apposte le vidimazioni (iniziale e annuale).

Il legislatore era già intervenuto nella materia fiscale, facendo riferimento a scritture contabili tenute con strumenti elettronici, disciplinandone la validazione e contemplando altresì la contabilità tenuta fuori dall'azienda da appositi «centri contabili» nonché quella tenuta da un unico registro «multiaziendale». Inoltre, nel 1994, era stato aggiunto all'art. 2220 c.c. un comma, in base al quale le scritture e i documenti contabili possono essere conservati sotto forma di registrazioni su supporti di immagini, sempre che le registrazioni corrispondano ai documenti e possano essere rese leggibili in ogni momento con mezzi messi a disposizione dal soggetto che utilizza detti supporti.

L'art. 10, secondo comma, si pone pertanto sulla linea evolutiva sopra brevemente ricordata, rappresentando peraltro la norma generale in materia, in base alla quale viene effettuata una equiparazione di principio tra documento cartaceo e documento informatico.

 

4. Una importante innovazione per quanto concerne l’efficacia probatoria, che consente di superare le difficoltà emerse nel corso del dibattito sopra brevemente riferito, si è avuta con il terzo comma dell’art. 10, che ha soppresso il rinvio all’art. 2702 c.c., previsto dalla norma previgente, per indicare l’efficacia probatoria del documento informatico munito di firma digitale.

La nuova norma stabilisce che il documento informatico, quando è sottoscritto con firma digitale o con altro tipo di firma elettronica avanzata e la firma è basata su un certificato qualificato ed è generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni di chi l’ha sottoscritto.

Essendo stato soppresso il richiamo della disciplina dettata nell’art. 2702 c.c. l’efficacia di «piena prova» non dipende più dal riconoscimento – sia pure tacito, per mancato disconoscimento (art. 215 c.p.c.) – della persona nei cui confronti il documento informatico viene fatto valere.

La disciplina più recente ha quindi carattere innovativo.[11]

A tale risultato, come ricordato, secondo una parte della dottrina, sarebbe stato possibile pervenire anche sulla base della normativa previgente. In tal senso, da ultimo, era stato affermato che la formula dell’art. 2702 c.c., richiamata sia dal Regolamento del 1997 che dal Testo unico del 2000 non sarebbe stata di ostacolo a considerare non richiesto il riconoscimento poiché la norma attribuisce il valore di piena prova alla firma (non soltanto nell’ipotesi del riconoscimento ma) anche quando questa sia «legalmente considerata come riconosciuta»; e, secondo la tesi in esame, la firma digitale integrerebbe appunto l’ipotesi di firma legalmente considerata come riconosciuta. Alle ipotesi previste nell’art. 2703 c.c. si sarebbe pertanto aggiunta quella della firma digitale, ma nessun sostegno in tal senso ci sembra rinvenibile nel vecchio testo normativo.

Il problema interpretativo è stato comunque risolto dal legislatore, che ha radicalmente modificato la norma. Neanche alla luce della nuova disciplina, peraltro, a nostro avviso, può parlarsi di firma «legalmente considerata come riconosciuta», poiché la norma ha creato uno strumento probatorio del tutto svincolato dal sistema degli articoli 2702 e 2703 c.c., prescindendo sia dal riconoscimento della persona nei cui confronti il documento viene fatto valere che dagli equipollenti del riconoscimento previsti nell’art. 2703 c.c. In definitiva, si tratta pertanto di un’innovazione di grande rilievo, sia rispetto alla disciplina codicistica della prova legale sia rispetto a quella specifica in materia di documento informatico, che alla prima faceva riferimento. La modifica di tale normativa specifica – ed in particolare la soppressione del riferimento all’art. 2702 c.c. per determinare l’efficacia probatoria – conferma peraltro che il risultato a cui si è pervenuti non poteva essere raggiunto rispettando le regole in tema di interpretazione della legge. Il fatto stesso che il legislatore ha modificato la norma dimostra infatti che l’interpretazione – oggi corretta in base al nuovo testo – non era esatta alla luce della vecchia disciplina, pur se forse preferibile da un punto di vista pratico.

L’efficacia di piena prova della provenienza delle dichiarazioni da chi ha sottoscritto il documento, è attribuita al documento informatico munito di firma digitale o di «altro tipo di firma elettronica avanzata». La firma elettronica si considera «avanzata» quando costituisce il risultato di una procedura informatica in grado di garantire la riferibilità del documento ad un determinato soggetto; l’identificazione di tale soggetto nonché l’integrità del contenuto del documento.

La norma richiede inoltre che la firma sia basata su un certificato «qualificato».

Riguardo alla certificazione è stato introdotto il principio del libero esercizio di tale attività (art. 26, primo comma, Testo unico, come modificato dall’art. 10 d.P.R. 7 aprile 2003, n. 137). Si distingue tuttavia tra «certificatori» e «certificatori accreditati» (art. 1, lett. u e v, ed artt. 26 e 27 Testo unico, come modificato dall’art. 1 d.P.R. 7 aprile 2003, n. 137). Soltanto i secondi sono abilitati a rilasciare i certificati «qualificati», mentre anche i primi possono prestare servizi di certificazione delle firme elettroniche o servizi connessi alle firme elettroniche. L’accreditamento, secondo l’art. 27, terzo comma, cit., si ottiene a seguito del riconoscimento del Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, che deve accertare i requisiti specifici.

È stato pertanto creato un sistema di firma elettronica quale figura più ampia rispetto alla firma digitale e alla firma elettronica avanzata (equiparata alla firma digitale). Corrispondentemente occorre distinguere i certificati «elettronici» dai certificati «qualificati». Entrambi attestano il collegamento della firma elettronica al loro titolare e confermano la sua identità, ma soltanto i secondi fanno piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi ha sottoscritto il documento, qualora si riferiscano ad una firma elettronica generata mediante l’impiego per la creazione di una firma sicura.

Riguardo alle prime, viceversa, l’art. 10 secondo comma stabilisce che il documento, sul piano probatorio, «è liberamente valutabile», determinando in tal modo un evidente collegamento con il principio della libera valutazione delle prove e del libero convincimento di cui all’art. 116 c.p.c.[12] Poiché la stessa norma prevede altresì che, dal punto di vista della forma, il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta, si configura una fattispecie di scrittura privata.

Al riguardo, mentre nessuna innovazione sistematica è dato rilevare con riferimento alla forma, del tutto innovativa appare la regola in tema di prova, poiché la scrittura privata (tradizionale) in mancanza di riconoscimento o dei suoi equivalenti (art. 2703 c.c.) non è sottoposta alla libera valutazione del giudice bensì, in mancanza del procedimento di verificazione (al quale, in caso di esito positivo, consegue l’efficacia di prova piena), non costituisce prova e quindi sfugge alla valutazione del giudice.[13]

Al documento informatico sottoscritto con firma elettronica (semplice) può peraltro essere attribuita l’efficacia di piena prova ai sensi dell’art. 2702 c.c. nel caso in cui la firma elettronica venga riconosciuta dalla persona nei cui confronti il documento viene fatto valere. Tale conclusione non trova alcuna base letterale nel testo dell’art. 10, ma essa è stata già sostenuta in dottrina in base al rilievo che la legge attribuisce alla firma elettronica «l’efficacia propria della scrittura privata».[14]

In verità, la legge distingue nettamente il piano relativo alla forma da quello relativo alla prova e l’equiparazione alla scrittura privata sembra limitata al soddisfacimento del requisito legale della forma scritta mentre sul piano probatorio – come detto – trova applicazione il principio della libera valutazione delle prove.

La tesi dell’applicabilità della regola di cui all’art. 2702 c.c., a nostro avviso, deve essere tuttavia condivisa poiché il riconoscimento della firma da parte di colui contro il quale il documento è prodotto, al pari di ogni dichiarazione di natura confessoria, attribuisce comunque certezza circa la provenienza delle dichiarazioni, eliminando quindi la possibilità di una diversa valutazione da parte del giudice.

 

5. Quando il documento informatico soddisfa i requisiti, sopra esaminati, elencati nell’art. 10, terzo comma, fa quindi piena prova «fino a querela di falso» della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritto.

La formula relativa all’efficacia di piena prova fino a querela di falso, già presente nella disciplina previgente, corrisponde a quella adoperata nell’art. 2702 c.c., ma le caratteristiche della nuova fattispecie impongono alcune precisazioni, soprattutto al fine di delimitare le ipotesi in cui la querela di falso può essere esperita.

Al riguardo, autorevole dottrina ha infatti distinto le fattispecie di utilizzazione di procedimenti tecnici fraudolenti o di violenza da parte del terzo, che in tal modo ottiene la disponibilità della chiave privata, da quelle in cui il terzo è venuto a conoscenza della chiave, non custodita con la necessaria diligenza, e la ha utilizzata per firmare dichiarazioni non provenienti dal titolare della chiave. Nessun dubbio sussiste sulla esperibilità della querela di falso nella prima ipotesi, mentre essa dovrebbe escludersi nella seconda ipotesi per tutelare l’incolpevole affidamento dei terzi, in applicazione del principio dell’apparenza imputabile.[15]

Il criterio distintivo, elaborato soprattutto per garantire certezza nei rapporti giuridici, potrebbe tuttavia generare incertezza, poiché, se si deve riconoscere tutela ai terzi che abbiano fatto incolpevole affidamento sull’autenticità del documento, essa dovrebbe estendersi alle ipotesi di furto della chiave, posto che il terzo non dispone normalmente di alcun elemento per distinguere le ipotesi in cui l’utilizzatore abbia ottenuto la chiave con violenza da quelle in cui ne è venuto a conoscenza a causa della scarsa diligenza del titolare nel custodirla.

In altri termini, un comportamento del titolare della chiave – quale causa dell’apparente autenticità della firma – può non sussistere anche in ipotesi diverse da quelle sopra indicate, cosicché possono configurarsi – se si considera rilevante l’affidamento incolpevole dei terzi – fattispecie in cui la linea di demarcazione potrebbe risultare alquanto incerta.

Analoghe incertezze potrebbero verificarsi, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali in tema di documento cartaceo firmato in bianco (c.d. biancosegno), nelle corrispondenti ipotesi di abusiva utilizzazione della chiave. La giurisprudenza – come è noto - considera infatti non esperibile la querela di falso nelle ipotesi di utilizzazione del foglio firmato in bianco in contrasto con le istruzioni ricevute da chi ha sottoscritto (contra pacta) e la ammette invece nell’ipotesi di biancosegno utilizzato da un terzo non autorizzato (absque pactis).

La seconda soluzione potrebbe essere seguita con riferimento ai casi di utilizzazione della chiave da parte di un depositario non autorizzato (absque pactis). In senso contrario è stato tuttavia rilevato che la suddetta conclusione non risulta accettabile in base al principio dell’apparenza imputabile, poiché anche in questo caso è il firmatario che con il proprio comportamento determina la situazione di apparenza circa la provenienza delle dichiarazioni e, soprattutto, che le conseguenze sul piano pratico sarebbero ben più gravi rispetto alla eccezionale apposizione di una firma autografa in calce ad un foglio in bianco, nel caso della firma digitale potendo «facilmente accadere che un terzo ne venga a conoscenza».[16]

Ad avviso di chi scrive la fattispecie del terzo che, più o meno facilmente, viene a conoscenza della chiave privata, non può essere senz’altro equiparata a quella del biancosegno (e quindi della chiave privata) utilizzato absque pactis, perché nel secondo caso ricorre un atto di disposizione – la consegna del foglio sottoscritto in bianco – che non sussiste nel caso della utilizzazione abusiva della chiave privata da parte di persona diversa dal titolare che sia riuscito ad averne conoscenza. Tuttavia, per conoscere la regola effettivamente vigente occorrerà verificare se la giurisprudenza si discosterà o meno dai principi elaborati con riferimento al documento cartaceo.



[1] Cfr., tra gli altri, C. M. Bianca - R. Clarizia- V. Franceschelli – F. Gallo – L. V. Moscarini – A. Pace – S. Patti, Commentario al D.P.R. n. 513 del 1997 «Formazione, archiviazione e trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, in Nuove leggi civ. comm., 2000, p. 633 ss.; G. Finocchiaro, La firma digitale, in Commentario del codice civile Scialoja e Branca, diretto da Galgano, Bologna-Roma, 2000; S. Patti, L’efficacia probatoria del documento informatico, in Riv. dir. proc., 2000, p. 60 ss.

[2] In argomento si rinvia a S. Patti, Della prova documentale, in Commentario del codice civile Scialoja e Branca, diretto da Galgano, Bologna-Roma, 1996, p. 1 ss.

[3] Cfr. S. Patti, L’efficacia probatoria del documento informatico, cit., p. 72; Id., in Bianca – Clarizia - Franceschelli – Gallo – Moscarini – Pace – Patti, Commentario, cit., p. 684; F. Ricci, Compatibilità della disciplina della firma tradizionale con la natura della firma digitale, in Diritto dell’economia, a cura di M. De Tilla, G. Alpa e S. Patti, Roma, 2002, p. 249 ss.

[4] Così, A. Graziosi, Premesse ad una teoria probatoria del documento informatico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 491 ss. In senso analogo A. Gentili, Documento informatico e tutela dell’affidamento, in Riv. dir. civ., 1998, II, p. 163 ss.; C. M. Bianca, I contratti digitali, in Studium iuris, 1999, p. 1035 ss.; Id., Diritto civile, 3, Il contratto3, Milano, 2000, p. 302 ss.

[5] V. Colesanti, Una questione in tema di onere di disconoscimento della scrittura, in Giur. it., 1962, I, 1, 1386.

C. M. Bianca, La firma elettronica: si apre un nuovo capitolo, in Studium iuris, 2002, p. 1431 ss.

[6] Per i primi commenti, v. F. Delfini, Il D.Lgs. n 10/2002 di attuazione della direttiva 1999/93/CE in tema di firme elettroniche, in Contratti, 2002, p. 407 ss.; F. De Rosa, Documento informatico, forma scritta ed efficacia probatoria, in NGCC, 2002, II, p. 746 ss.; A. Graziosi, La nuova efficacia probatoria del documento informatico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2003, p. 53 ss.

[7] Relazione del Ministro Guardasigilli, Roma, 1943, n. 1110, p. 778 ss.

[8] V. Denti, La verificazione delle prove documentali, Torino, 1957, p. 78 ss.

[9] B. Carpino, Scrittura privata, in Enc. dir., XLI, Milano, 1990, p. 818.

[10] In argomento cfr. Patti, Prova documentale, cit., p. 119 ss.

[11] In questo senso, esattamente, v. anche F. De Rosa, Documento informatico, forma scritta ed efficacia probatoria, cit., p. 746 ss.; mentre il precedente assetto normativo sarebbe rimasto «fermo e immutato» secondo Graziosi, La nuova efficacia probatoria del documento informatico, cit., p. 65.

[12] In argomento, anche per le indicazioni bibliografiche, v. S. Patti, Prove. Disposizioni generali, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1987, p. 144 ss.

[13] Cfr. Patti, Prova documentale, cit., p. 72 ss.

[14] Cfr. Bianca, La firma elettronica: si apre un nuovo capitolo, cit., p. 1433.

[15] Bianca, La firma elettronica: si apre un nuovo capitolo, cit., p. 1432.

[16] Bianca, La firma elettronica: si apre un nuovo capitolo, cit., p. 1433.