Incontro di studio del C.S.M. "Secondo corso di formazione di diritto commerciale: questioni attuali di diritto dell’impresa, di diritto industriale e di diritto societario. II° Ciclo" – Roma 15 -18 luglio 2002.

 

 

"L’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c. . Natura della responsabilità. Carattere diretto (contrattuale o extracontrattuale) o surrogatorio dell’azione. Interferenza con l’azione sociale di responsabilità.

La responsabilità verso i singoli soci o i terzi (art. 2395 c.c.). I presupposti, l’elaborazione giurisprudenziale della nozione di danno diretto. "

Giovanni Sansone, giudice del Tribunale di Trieste

 

 

 

1 - Alcune considerazioni preliminari alle riflessioni che cercherò di svolgere sul tema che mi è stato assegnato mi sembrano opportune. Esse riguardano da un lato la problematica relativa al conflitto di interessi tra azionisti e creditori sociali nella gestione della società; dall’altro, le forme di tutela dei creditori sociali predisposte dall’ordinamento societario e dall’autonomia privata. Ritengo che un rapido esame di questi due aspetti possa favorire una corretta ricostruzione della disciplina dell’istituto in esame e consentire al giudice di acquisire quella "consapevolezza dei termini culturali dei problemi, dei valori sottesi ad ogni scelta operativa" e quindi di pervenire alla soluzione più appropriata tra quelle potenzialmente atte a perseguire scopi di giustizia.

Occorre allora considerare che ogniqualvolta gli amministratori prendono decisioni sulla gestione della società, gli interessi dei creditori generalmente confliggono con quelli degli azionisti.

Supponiamo che l’amministratore di una società si trovi nell’alternativa di poter scegliere tra un investimento per il quale sono necessari € 1.000 e che questo investimento dia un 50% di probabilità di realizzare un profitto di altri € 1.000 e 50% di probabilità di perdere tutto, e un altro investimento degli stessi 1.000 € che abbia un 30% di probabilità di realizzare un ricavo di 3.000 e 70% di probabilità di perdere tutto. Mentre per gli azionisti il primo affare ha un valore inferiore a quello del secondo, per il creditore sociale è più conveniente l’investimento dei suoi 1.000 € nell’affare che ha il 50% di probabilità di una resa pari a € 2.000 e meno conveniente, perché più rischioso, il secondo affare. La convenienza degli azionisti è assolutamente diversa da quella che riguarda gli stessi affari visti dalla prospettiva del creditore sociale per la ragione che diversi sono i loro rispettivi interessi: quello degli azionisti è di massimizzare il proprio investimento, mentre quello dei creditori di recuperare alla scadenza il prestito erogato con gli interessi stabiliti o la controprestazione pattuita. Mentre l’interesse dei creditori può dirsi danneggiato dalla gestione degli amministratori allorché per le perdite da questa generate non possono essere corrisposti gli interessi o, peggio, non viene restituito il capitale, l’interesse degli azionisti è danneggiato non solo quando la gestione per le perdite generate abbia ridotto il patrimonio sociale e conseguentemente il valore della partecipazione del socio, ma anche quando gli amministratori non abbiano saputo cogliere quelle opportunità che avrebbero consentito la "valorizzazione" del patrimonio sociale e quindi della partecipazione dei soci.

Soci e creditori hanno in comune solo l’interesse a che il patrimonio sociale non vada sperperato.

Gli interessi delle due categorie sono poi in conflitto quando la società paga dividendi o effettua altri tipi di distribuzione agli azionisti. Queste distribuzioni riducono il cuscinetto dei fondi propri su cui i creditori fanno affidamento quando decidono di finanziare la società.

Non va trascurato, infine, che gli amministratori possono diluire le pretese dei creditori facendo indebitare ulteriormente la società, così da far concorrere i creditori preesistenti con i nuovi creditori in casi di insolvenza della società.

Da quanto detto emerge che la tutela dei creditori è fondamentalmente connessa alla possibilità, per i creditori, di intervenire sulla gestione, oltre , beninteso, alla possibilità di ottenere delle garanzie reali o anche personali nel caso di società a base azionaria ristretta. E così possono esigere che le società debitrici rispettino un determinato ratio finanziario, come ad es.: il rapporto tra debito e mezzi propri; oppure possono negoziare clausole che limitano la distribuzione dell’attivo ai soci; nei finanziamenti in favore di società inserite in un’organizzazione di gruppo, al fine di neutralizzare i rischi particolari del finanziamento nel gruppo, possono esigere dalla capogruppo - che determina la gestione unitaria del gruppo - delle "garanzie di comportamento" attraverso il rilascio di lettere di patronage. E’ chiaro che solo i creditori sofisticati, ossia i creditori finanziari, sono in grado di negoziare al fine di ottenere "diritti" di intervento sulla gestione della società e quindi di autotutelarsi contrattualmente.

I creditori sociali possono ancora autotutelarsi attraverso l’informazione che la società è tenuta a dare della propria situazione patrimoniale e finanziaria con il bilancio d’esercizio e, per le società quotate, anche con la relazione semestrale. Conoscendo la situazione patrimoniale e finanziaria della società i terzi possono valutare la convenienza o meno di concludere rapporti con essa.

Il bilancio d’esercizio infatti consente di conoscere il valore del patrimonio netto contabile della società, il quale rappresenta una misura essenziale per valutare le caratteristiche della struttura finanziaria dell’impresa e in particolare il grado di copertura con mezzi stabili degli immobilizzi tecnici e finanziari nonché il grado di leverage dell’impresa e cioè due indicatori di particolare interesse per i terzi finanziatori.

A tutela dei creditori, poi, il nostro codice prevede che quando il patrimonio netto contabile si assottiglia oltre la soglia minima legale, la società, se non provvede alla sua ricapitalizzazione, si scioglie e l’attività si deve fermare: l’art. 2449 vieta agli amministratori il compimento di operazioni nuove, ossia l’assunzione di rischi ulteriori.

Ma a tutela degli interessi dei creditori il nostro codice rivolge anche la gestione della società; l’art. 2394 del codice civile prevede infatti la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali per aver compiuto atti di mala gestio o violato doveri specifici che rendono insufficiente il patrimonio sociale al soddisfacimento dei creditori. Pertanto, se nel periodo di solvenza gli amministratori sono tenuti alla massimizzazione del valore delle partecipazioni sociali, nel periodo di crisi agli amministratori va ascritto il dovere di tutelare l’interesse dei creditori alla conservazione del patrimonio sociale. Si tratta di un principio accreditato anche in esperienze giuridiche diverse dalla nostra: nell’ordinamento statunitense, ad esempio, al dovere degli amministratori di perseguire la value maximization si affiancano, in caso di pre-insolvenza, alcuni doveri fiduciari verso i creditori riconducibili al divieto di assumere rischi eccessivi ed all’obbligo di non dilazionare la richiesta di apertura della procedura concorsuale.

 

2 - Ai sensi dell’art. 2394 l’azione contro gli amministratori è proponibile dai singoli creditori solo se il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. In caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria l’azione è proposta – come quella sociale – dagli organi preposti alla procedura.

Per l’esperibilità dell’azione in esame deve ricorrere un nesso di causalità tra la violazione degli obblighi indicati nel primo comma dell’art. 2394 e l’insufficienza del patrimonio sociale che impedisca il soddisfacimento delle ragioni dei creditori. Occorre in sostanza che la violazione degli obblighi imposti agli amministratori abbia generato uno squilibrio patrimoniale, un’eccedenza cioè delle passività sulle attività, che pregiudichi il soddisfacimento dei creditori. Ove i soci o i terzi, in presenza di uno squilibrio patrimoniale frutto di una gestione scriteriata, preferiscono ricapitalizzare la società, i creditori non potrebbero esperire l’azione ex art. 2394 anche perché non vi avrebbero interesse e, ove l’avessero proposta prima della ricostituzione del capitale, verrebbe a mancare l’interesse ad agire. Legittimati, in questo caso, sarebbero solo i soci. "L’interesse del creditore sociale sorge quando il patrimonio sia divenuto insufficiente, non quando non sia integro, ma sia sufficiente e magari largamente sufficiente" (Ferri, Le Società , 1971, p. 532). In base a questo assunto, la situazione di fatto ed il momento a decorrere dal quale sarebbe configurabile la lesione dell’interesse dei creditori giuridicamente protetto (art. 2394 I° comma) verrebbero a coincidere con la situazione di fatto ed il momento nel quale l’interesse ad agire dei creditori diviene attuale (2394 II comma), oltre che con il termine di decorrenza iniziale di prescrizione dell’azione.

Lo squilibrio patrimoniale emerge dal bilancio di esercizio; ove questo sia stato redatto in violazione della relativa disciplina, attraverso la riclassificazione delle poste iscritte in bilancio.

Va rilevato, tuttavia, che il rispetto della disciplina disposta in sede di valutazione delle poste iscrivibili nel bilancio di esercizio, disciplina ispirata a criteri prudenziali e che presuppone la continuazione dell’esercizio dell’attività economica, può comportare che la società, nonostante l’affermata perdita dell’intero capitale continui a presentare a volte cospicui valori patrimoniali nonostante il valore zero del netto emergente dal bilancio. Dovendosi in questo caso ritenere il realizzo dell’attivo superiore o almeno pari alle passività, non sarebbe configurabile un danno dei creditori. Tuttavia, ove la società non provvedesse alla sua necessaria ricapitalizzazione si verificherebbe il suo scioglimento e scatterebbe il divieto in capo agli amministratori di intraprendere nuove operazioni con la conseguenza che una responsabilità degli amministratori verso i creditori sarebbe configurabile in caso di assunzione di nuovi rischi da cui derivasse un depauperamento del patrimonio e la sua incapienza a soddisfare integralmente tutti i creditori.

La frequenza con cui le società in difficoltà mascherano la crisi alterando i dati contenuti nel documento contabile e continuano ad operare anche in presenza di una situazione di squilibrio patrimoniale e finanziario, fa sì che l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394, 2° comma si manifesta e risulta ai creditori in un tempo assai prossimo al fallimento. Ne deriva che la sede normale in cui questa azione viene esercitata è quella fallimentare.

Con riguardo alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione la giurisprudenza ha anzitutto sottolineato che essa non scatta dal momento della commissione dei fatti integrativi di responsabilità, ma dal successivo momento in cui si verifica l’evento dannoso dell’insufficienza del patrimonio della società non coincidente necessariamente con la dichiarazione di fallimento. (Cass. Sez. Un. 6.10.1981 n. 5241 in Giur. Com. 1982 II 768).

Può, infatti, verificarsi che l’insufficienza patrimoniale risulti – e la prescrizione inizi a decorrere – sia prima della dichiarazione di fallimento (nelle ipotesi in cui, ad es. a seguito di istanza per concordato preventivo o di un concordato stragiudiziale, o altrimenti, risulti che il realizzo dell’attivo è insufficiente al pagamento integrale dei debiti), sia in un momento successivo alla dichiarazione di fallimento (nelle ipotesi in cui non emerga prima facie l’esistenza di uno sbilancio patrimoniale negativo).

La Suprema Corte ha rilevato che "l’onere della prova della preesistenza al fallimento dello stato di insufficienza patrimoniale della società spetta al soggetto (amministratore o sindaco) che, convenuto in giudizio a seguito dell’esperimento della detta azione di responsabilità, ne eccepisca l’avvenuta prescrizione" (Cass. 28.V.1998 n.5287 in Fall. 1999, p. 397), ed ha precisato che "tale onere non può dirsi assolto mediante la generica deduzione, priva di qualsiasi altro utile elemento di fatto a sostegno dell’assunto, secondo cui l’insufficienza patrimoniale si sarebbe manifestata già al momento della messa in liquidazione della società, non essendo il procedimento di liquidazione necessariamente determinato dalla eccedenza delle passività sulle attività patrimoniali e non implicando, altresì, la perdita integrale del capitale sociale una consequenziale perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale" (Cass. 28.V.1998 n. 5287 cit).

Sull’estensione del contenuto dell’onere probatorio si registrano due posizioni giurisprudenziali: una prima, eccessivamente rigorosa, in base alla quale per poter vincere la "presunta" coincidenza tra la data della dichiarazione di fallimento ed il momento nel quale risulta la insufficienza del patrimonio sociale , occorre dimostrare "che tutti i creditori abbiano infruttuosamente escusso il patrimonio sociale prima di tale data" (Cass. Sez. Un. 6.10.1981 n. 5241 cit.); una seconda tendenza, per la quale sarebbe invece sufficiente la individuazione del momento nel quale i creditori hanno un’oggettiva possibilità di conoscere che il patrimonio è insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti (App. Milano 26.2.1988 in Le Società, 1988, 714).

Con riguardo, poi, alla prova dell’insufficienza del patrimonio sociale si ritiene in giurisprudenza non necessaria la preventiva liquidazione del patrimonio sociale, bastando che "aggredito dal creditore, esso risulti insufficiente o, pur non aggredito, il divario tra il valore dei beni e l’importo globale dei debiti appare sicuramente incolmabile, tenuto conto dell’attuale o prevedibile appetibilità futura di tali beni sul mercato" (Trib. Milano 6.2.1989 in Giur. it. 1989, II, 758).

 

3 - Se si considera che la responsabilità in esame sussiste soltanto se gli inadempimenti o violazioni degli amministratori riducono il patrimonio sociale in maniera tale che questo "risulti insufficiente al soddisfacimento dei creditori" e che la sede normale in cui questa azione viene esercitata è quella fallimentare, si può affermare che con l’azione ex art. 2394 viene sindacata la gestione dello stato di crisi che precede la dichiarazione di fallimento. E’, del resto, in questa fase che il conflitto tra azionisti e creditori diventa più acuto e gli amministratori molto spesso nel favorire le strategie ed i comportamenti opportunistici degli azionisti di cui sono espressione compiono a danno dei creditori gli errori di gestione più rilevanti e violano obblighi specificamente imposti dalla legge. E’ da tenere presente, infatti, che in presenza di uno squilibrio patrimoniale che azzera il valore della partecipazione sociale gli azionisti e gli amministratori hanno interesse al compimento di qualsiasi operazione che consenta di mantenere il controllo dell’impresa essendo loro indifferente il rischio che da essa possa derivare un ulteriore danno al patrimonio aziendale. In forza della responsabilità limitata dei soci al conferimento nella società, è naturale che costoro apprezzino una politica di gestione dell’impresa incline al compimento di operazioni pericolose che ritengono possa consentire di superare la crisi.

Gli errori di gestione più ricorrenti sono: l’inerzia o l’eccessivo ritardo nell’avviare una ristrutturazione del debito soprattutto quando lo sviluppo oltre che veloce ed aggressivo è stato realizzato con carenza di mezzi propri e senza che sia stata verificata la sua sostenibilità; il mantenimento di attività, anche estranee al c.d. core business, che generano risultati negativi e che distruggono valore; il tentativo di rimuovere la crisi attraverso operazioni negoziali ad alto rischio, senza oggettivi affidamenti sul buon esito delle operazioni stesse.

Tra gli obblighi specificamente imposti dalla legge la violazione più ricorrente è l’assunzione di nuovi rischi dopo la perdita del capitale.

Nella prassi giudiziaria, la violazione dell’art. 2449 I° comma è quella che il curatore generalmente deduce a fondamento della propria domanda. Ciò si spiega con la facilità di ancorare la colpa degli amministratori alla violazione di un obbligo specifico imposto dalla legge, ma può spiegarsi anche per le incertezze che sussistono nell’operare ex ante una distinzione tra tentativi di risanamento che possono comportare un aggravamento del dissesto e tentativi che possono consentire di superare la crisi. Queste incertezze derivano anche per l’atteggiamento imprevedibile e non sempre lineare che possono assumere i creditori, i quali hanno un ruolo decisivo nella realizzazione del piano volto a superare la crisi dell’impesa.

Non va, poi, taciuto che non di rado la violazione del divieto di compiere nuove operazioni quando s’è perduto il capitale sociale, è stata favorita dall’atteggiamento dei creditori finanziari più esposti che anche di fronte a palesi fenomeni di deterioramento e di squilibrio, nel tentativo di recuperare con la continuazione dell’attività una parte dei crediti erogati, hanno rifinanziato i prestiti e i debiti (peraltro a condizioni più onerose) preferendosi partecipare così ad un processo collettivo di autoinganno piuttosto che richiedere il fallimento che se tempestivamente avviato avrebbe consentito non solo di evitare l’aggravamento del dissesto, ma anche una più vantaggiosa riallocazione dei complessi produttivi e quindi un miglior recupero per i creditori.

 

4 - Un problema oggetto di ampio esame è quello della natura dell’azione prevista dall’art. 2394: cioè se essa sia un’azione diretta ed autonoma che spetta ai creditori ( ed il cui esito andrebbe, pertanto, al loro diretto vantaggio), oppure sia l’azione sociale di responsabilità esercitata in via surrogatoria dai creditori (i quali ne trarrebbero, pertanto, solo un vantaggio indiretto conseguente all’incremento del patrimonio della società).

Poiché, come si è visto, l’azione è normalmente esercitata in sede fallimentare, questo problema ha in genere scarsa rilevanza pratica: invero l’azione del curatore è destinata in ogni caso ad incrementare la massa attiva del fallimento quale che si la sua qualificazione. Ciò ha consentito alla giurisprudenza più recente di non prendere posizione sulla delicata questione.

Talvolta, però (quando l’azione ex art. 2394 si è esercitata al di fuori della sede fallimentare; oppure quando essa sia l’unica azione esercitabile dal curatore, perché l’azione sociale è prescritta), può avere rilevanza stabilire che l’azione dei creditori sociali abbia natura diretta o, invece, surrogatoria. Ed invero:

Secondo i sostenitori della natura surrogatoria non vi sarebbero due distinte azioni di responsabilità, ma vi sarebbe un’unica azione di responsabilità che spetta alla società nel cui patrimonio il danno si è verificato ed alla reintegrazione del cui patrimonio l’azione è diretta, e che in talune situazioni, quando non sia stata esercitata dalla società e non sia stata transatta, può essere esercitata dai creditori sociali. L’azione dei creditori sociali non sarebbe quindi un’azione ad essi autonomamente concessa per il risarcimento del danno subito.

La natura surrogatoria viene sostenuta essenzialmente sul rilievo che l’azione di responsabilità dei creditori sociali sarebbe pur sempre diretta alla reintegrazione del patrimonio della società e non alla reintegrazione del patrimonio del creditore. Ciò risulterebbe dal fatto che in caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa, legittimato all’azione è il curatore o il commissario liquidatore: e ciò perché si tratterebbe di un’azione diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita o messa in liquidazione coatta.

A sostegno della natura diretta si è anzitutto rilevato che l’azione surrogatoria, quantunque prevista dall’art. 2900, si profila pur sempre come un’eccezione al principio secondo il quale nessuno è autorizzato ad agire in giudizio in nome proprio per far valere diritti altrui (art. 81 c.p.c.). E già questo, si sottolinea, dovrebbe suggerire cautela nell’attribuire carattere e finalità surrogatorie ad un’azione come quella cui si riferisce l’art. 2394 il quale stabilisce che ""gli amministratori rispondono verso i creditori sociali……..".

Si è osservato, poi, che non solo la concreta disciplina stabilita dall’ultimo comma dell’art. 2394 non collima con quella tipica dell’azione surrogatoria, ma neppure i presupposti delle due azioni coincidono. Infatti, mentre l’azione surrogatoria, essendo volta a ripristinare la garanzia generica del credito, presuppone unicamente la potenziale incapacità del patrimonio del debitore a fornire detta garanzia ove il creditore non sopperisca all’inerzia del debitore medesimo nel far valere la proprie ragioni verso i terzi, l’azione risarcitoria ex art. 2394 richiede l’attualità della lesione inferta dagli amministratori al patrimonio della società da loro gestita e postula che questo patrimonio già risulti insufficiente (non solo potenzialmente) al soddisfacimento dei creditori. Non si tratta, quindi in questo caso, di tutelare la garanzia del credito, bensì di conseguire il risarcimento di un danno già verificatosi e destinato a ripercuotersi nella sfera di interessi del creditore sociale (responsabilità per lesione del credito). Il che spiega la ragione per la quale il medesimo creditore è certamente legittimato all’esercizio dell’azione in discorso anche quando, invece, l’azione di responsabilità sociale non potrebbe affatto essere esperita per avere l’assemblea preventivamente autorizzato gli amministratori al compimento dell’atto dannoso. E si comprende allora anche perché, in ipotesi di fallimento o di liquidazione coatta della società, gli artt. 146 2° comma e 206 l.f. attribuiscano rispettivamente al curatore ed al commissionario liquidatore entrambe le azioni ex art. 2393 e 2394: previsione altrimenti ridondante se davvero l’azione dei creditori dovesse identificarsi con l’azione sociale di responsabilità, esercitata dai creditori stessi , per supplire all’inerzia del titolare (così App. Milano 14.1.1992 in Giur. Comm. 1993, 63).

Dalla natura autonoma dell’azione in esame consegue che l’oggetto della pretesa del singolo creditore coinciderà con il diritto da questi vantato verso la società e rimasto insoddisfatto a causa dell’insufficienza del patrimonio di quest’ultimo. L’amministratore sarà quindi aggredibile da ciascuno dei creditori sociali insoddisfatti e la sua responsabilità nei confronti di ciascuno sarà commisurata al danno da quello patito in conseguenza della insufficienza del patrimonio della società.

La natura autonoma dell’azione in parola comporta che essa non viene resa inammissibile dall’eventuale successiva proposizione dell’azione sociale di responsabilità per difetto sopravvenuto in corso di causa di uno dei presupposti dell’azione surrogatoria - l’inerzia del creditore – come, invece, è stato ritenuto dal Tribunale di Palermo (11.9.1992 in Società 1993, p. 788). In questo caso, poiché gli amministratori non possono essere costretti a risarcire il danno più di una volta, né condannati ad un risarcimento maggiore del danno effettivamente inferto, il risarcimento eventualmente conseguito dal creditore sociale deve essere sottratto a quello che sia eventualmente, in un momento successivo, attribuito alla società, avendo pure questa azionato la pretesa risarcitoria che le spettava. In definitiva con la disaggregazione del danno in capo al creditore sociale, la pretesa risarcitoria della società viene commisurata all’intero danno subito meno il risarcimento già accordato al creditore sociale.

Muovendo dalla natura autonoma dell’azione in discorso, trattandosi di un ipotesi di responsabilità per lesioni del credito, la Corte di Appello di Milano – 14.1.1992, cit., ha ritenuto ammissibile l’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali nei confronti degli amministratori anche quando la società sia stata sottoposta a procedura di concordato preventivo. I giudici milanesi hanno rilevato che "il creditore che agisca ai sensi dell’art. 2394, non intende certo (né potrebbe) far valere il credito che vanta verso detta società. L’azione in discorso ha un petitum (il risarcimento dei danni sofferti dal creditore il cui credito sia stato leso dall’illegittimo comportamento degli amministratori della società debitrice) e di una causa petendi (la responsabilità degli amministratori) che nulla hanno a che fare con il petitum e la causa petendi dell’azione contrattuale che sarebbe stata esercitabile, in difetto di concordato, nei confronti della società debitrice".

Ove, invece, si riconoscesse all’azione in esame natura surrogatoria, qualora sia stato stipulato un concordato a percentuale con i creditori, costoro non avrebbero alcun interesse ad aumentare il patrimonio sociale se la società adempie al concordato.

Non mi risulta che sia stata presa in esame l’ammissibilità dell’azione ex art. 2394 quando la società sia stata sottoposta ad amministrazione controllata. Ritengo che in questo caso l’azione in esame non sia ammissibile per la decisiva ragione che l’ammissione della società a questa procedura postula l’accertamento da parte del tribunale che "vi siano comprovate possibilità di risanare l’impresa " art. 187 I comma l.f.) che consentano all’imprenditore alla fine della procedura o anche prima del termine stabilito "di essere in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni" (art. 193 l.f.). In sostanza l’ammissione alla procedura di amministrazione controllata richiede la ricorrenza di un presupposto (capacità, alla fine della procedura, di soddisfare le obbligazioni assunte) incompatibile con quello stabilito dall’art. 2394 (insufficienza patrimoniale).

 

5 - Altro problema a lungo dibattuto concerne la natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità prevista dall’art. 2394.

La natura contrattuale è sostenuta sul rilievo che la responsabilità deriverebbe dall’inadempimento di una preesistente obbligazione (anche se posta dalla legge) e non dal mero compimento di un atto dannoso; inoltre essa verrebbe in considerazione perché vi sarebbe violazione di un precedente vincolo e come mezzo succedaneo per ristabilire la forza effettuale, e non già quale semplice mezzo di accollo di un danno ingiusto.

Di contro si è osservato che non sarebbe del tutto esatto operare una distinzione tra la violazione di una preesistente obbligazione posta dalla legge e il compimento di un atto dannoso per individuare il criterio discriminante tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Il fatto che vi sia una obbligazione imposta dalla legge che prescriva un determinato comportamento pena la responsabilità dell’agente, non sarebbe un criterio utile di distinzione della natura della responsabilità.

La giurisprudenza propende per la natura extracontrattuale " in assenza dell’imprescindibile presupposto della responsabilità contrattuale che è costituito dalla preesistenza di un vincolo obbligatorio (anche se non necessariamente di genesi contrattuale) del quale possa configurarsi l’inadempimento" (Cass. 22 X 1998 n. 10488 in Giur. it. 1999, 773).

Secondo la dottrina la distinzione avrebbe importanti riflessi applicativi sotto il profilo dell’onere della prova relativo soprattutto all’elemento soggettivo. Si sostiene che ove si ritenesse la natura contrattuale della responsabilità, i creditori non dovrebbero fornire la prova della colpa degli amministratori. Lo sforzo della dottrina che tende a ricondurre la responsabilità in esame nell’area contrattuale sembra quindi dettato dall’esigenza di favorire i creditori danneggiati nell’assolvimento dell’onere probatorio della responsabilità degli amministratori.

Sul punto sembrano opportune alcune precisazioni.

In tema di responsabilità contrattuale, come regola generale il creditore non ha l’onere di provare la colpa del debitore. E’ il debitore che deve provare ai sensi dell’art. 1218 che l’inadempimento non gli è imputabile.

Diversa regola si ritiene operante con riguardo alle obbligazioni di fare ed alle obbligazioni di mezzi, tra le quali rientra quella degli amministratori, dove il creditore dovrebbe dare la prova specifica della colpa del debitore. Il creditore, infatti, avrebbe l’onere di provare l’inesatto adempimento del debitore e questo può richiedere la prova della negligente esecuzione della prestazione. Nelle obbligazioni di fare la diligenza, invero, assume il duplice ruolo di criterio di determinazione della prestazione dovuta e di criterio di responsabilità. In queste obbligazioni l’inesattezza dell’adempimento è data dalla difformità tra la prestazione eseguita e il modello di prestazione diligente. La prova dell’inesatto adempimento è quindi la prova della colpa. Nelle obbligazioni di mezzi la prova della difformità (dell’inesatto adempimento) riguarda il comportamento del debitore raffrontato con il modello di comportamento diligente. Si giunge in tal modo ad applicare alla responsabilità contrattuale ax art. 1218 una regola identica a quella desumibile dall’art. 2043 in tema di responsabilità extracontrattuale: cioè a richiedere in entrambe le ipotesi al creditore la prova della colpa dell’amministratore. La configurazione delle responsabilità ex. art. 2394 come contrattuale non offrirebbe quindi alcun vantaggio sotto il profilo probatorio. Di recente, tuttavia, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel comporre la questione della ripartizione dell’onere probatorio in materia di inadempimento delle obbligazioni contrattuali ha richiesto al creditore che agisca in giudizio per l’inesatto adempimento del debitore l’allegazione e non la prova dell’inesattezza dell’adempimento costituita dalla mancata osservanza dell’obbligo di diligenza (Cass. Sez. Un. 30.10.2001 n. 13533 in F.IT. 2002 I, 770).

Occorre comunque rilevare che nella pratica la responsabilità degli amministratori viene generalmente fondata sulla violazione di specifici obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale contenute in norme la cui caratteristica è che elaborandole il legislatore ha già svolto in astratto un giudizio di ragionevole prevedibilità del verificarsi di eventi dannosi in seguito all’inosservanza dell’azione o di omissione in esse contenute; per tale motivo è possibile prescindere dalla concreta individuazione dell’azione colposa per l’imputazione di responsabilità, sicché un problema di prova della colpa si pone nei rari casi in cui la responsabilità degli amministratori viene fondata sulla violazione del dovere generale di amministrare con diligenza salvaguardando l’integrità del patrimonio sociale.

 

6 - Gli amministratori sono infine responsabili nei confronti dei singoli soci e dei terzi per i danni provocati direttamente a costoro nell’esercizio delle loro funzioni.

L’aspetto più delicato che pone l’art. 2395 sta nel significato da attribuire all’espressione "direttamente danneggiati"; in questa espressione che si contrappone evidentemente a "indirettamente danneggiati" sta la chiave della distinzione di questa azione da quelle previste dagli artt. 2392, 2394. Il danno arrecato al patrimonio sociale, colpisce i soci sempre "indirettamente": essi vedranno pregiudicato il loro diritto sugli utili o vedranno diminuire il valore della loro partecipazione. Quindi un danno indiretto per tutti i soci esiste sempre quando un comportamento degli amministratori ha danneggiato il patrimonio della società. Un danno indiretto ai terzi, intesi come creditori sociali esiste pure quando il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. In questi casi l’art. 2395 non è applicabile.

Con la sentenza 8.7.1991 n. 7534 in Giur. it. 1991, I, 1131, la Suprema Corte, confermando il proprio orientamento, ha precisato che l’avverbio "direttamente" va ricollegato non all’interesse tutelato dall’ordinamento giuridico quasi come se fosse sinonimo di " personalmente" e mettesse in risalto l’appartenenza del diritto soggettivo leso al socio o al terzo, bensì al nesso di causalità tra azione ed evento, ponendo quindi l’accento sulla direzione dell’atto lesivo, al fine di considerare tutelabile il danno – evento cagionato in modo diretto e non di riflesso cioè non come conseguenza del danno arrecato direttamente al patrimonio sociale. In sostanza "il discrimine tra la responsabilità degli amministratori prevista dagli artt. 2392 – 2394 e quella contemplata dall’art. 2395, non va individuato tanto nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità (che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo) quanto nelle conseguenze che il comportamento illegittimo degli amministratori ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo: se il danno costituisce solo il riflesso di quello arrecato al patrimonio sociale si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2395, poiché detta disposizione richiede che il danno causato dagli amministratori abbia investito direttamente, vale a dire in via immediata, il patrimonio del socio o del terzo " (Cass. 28.3.1996 n. 2850, in Le Società 1996, p. 1397).

L’esempio classico di applicazione dell’art. 2395 riguarda l’ipotesi in cui gli amministratori mediante la redazione di bilanci falsi inducono i soci o i terzi alla sottoscrizione o all’acquisto di azioni a prezzo insostenibile, oppure riescono ad ottenere finanziamenti dalle banche o notevoli forniture di materie prime con una lunga dilazione di pagamento. In questi casi non vi è un danno per la società, perché anzi la società è riuscita a collocare proprie partecipazioni o è riuscita ad ottenere finanziamenti e quindi non è stata danneggiata. Danneggiati, e danneggiati direttamente, sono evidentemente coloro i quali, fidandosi dei bilanci redatti dagli amministratori hanno sottoscritto le azioni o hanno erogato finanziamenti. Qui il danno che essi subiscono non è un riflesso del danno subito dal patrimonio sociale, ma investe immediatamente il loro patrimonio.

In relazione all’elemento soggettivo ed in particolare all’assorbimento dell’onere della prova ad esso relativa, possono valere le considerazioni già svolte in ordine alle caratteristiche delle norme che prevedono gli obblighi specifici violati dagli amministratori, quella cioè di prescindere dalla concreta individuazione dell’azione colposa per l’imputazione della responsabilità.

L’applicazione dell’art. 2395 non dipende, però, solo dal fatto che il socio o il terzo abbiano subito un danno incidente sul loro patrimonio (tale requisito – cose s’è già detto – è posto dall’avverbio "direttamente") ma anche dal fatto che tale danno derivi, attraverso un nesso di causalità immediato, dal comportamento illecito degli amministratori.

A questo proposito, bisogna quindi tener ben distinti, l’elemento del danno diretto posto dall’art. 2395, dai presupposti di cui all’art. 1223 (richiamato dall’art. 2056) in base ai quali sono risarcibili solo i danni che siano conseguenza "immediata e diretta" dell’illecito. La formulazione dell’art. 2395 indica chiaramente che quanto ivi espressamente previsto attiene all’an del risarcimento, non al quantum debeatur. La norma generale di cui all’art. 1223, riferendosi invece alla liquidazione del danno seleziona i danni risarcibili una volta che sia stata ammessa la proponibilità dell’azione.

La giurisprudenza, però, nelle applicazioni concrete non distingue questi due profili. E’ frequente, infatti, l’assunto secondo cui la disposizione di cui all’art. 2395 attribuisce "al socio o al terzo un’azione individuale, di natura extracontrattuale, per il risarcimento dei danni da essi direttamente risentiti in conseguenza di atti dolosi o colposi degli amministratori: dei danni, cioè che siano la conseguenza immediata e diretta del comportamento degli amministratori " (così Cass. 6.1.1982 n. 14; Cass. 9.2.1980 n. 1212).

La prova del rapporto di causalità può risultare agevole quando l’amministratore ha agito con dolo nei confronti del terzo "determinato", facendo opera personale di convincimento affinché il finanziatore conceda il finanziamento o il terzo sottoscriva l’aumento di capitale, o concluda un’operazione negoziale: si pensi al caso degli amministratori che rassicurino un creditore sociale circa l’infondatezza di alcune notizie apparse su un quotidiano nel quale si accennava ad uno stato di tensione finanziaria della società, inducendolo così ad effettuare ulteriori e più consistenti forniture a fronte di un corrispettivo che la società non sarebbe mai stata in grado di pagare. Il danno, in questo caso, è stato liquidato in misura pari all’importo della fornitura eseguita e non pagata, in difetto di prova di maggior danno (Trib. Lucca 14.9.1989 in Giust. Civ. 1989, I, 2695).

Per contro, la prova del rapporto di causalità diventa assai più complessa nel caso di danno subito a seguito di operazioni negoziali realizzate sulla base di false comunicazioni sociali impersonalmente rivolte al pubblico . Occorre considerare da un lato che le motivazioni che spingono ad un investimento possono essere molteplici, di varia intensità e non sempre controllabili ex post, dall’altro che non tutti i soggetti che concludono operazioni negoziali con le società esaminano prima i loro bilanci.

Ed allora, da un lato, pretendendo dal danneggiato una troppa rigorosa prova del rapporto di causalità si rischia di lasciare irrisarciti danni che in realtà si ricollegano causalmente scorretto degli amministratori. Dall’altro lato, se ci si accontenta di una prova generica si rischia che il comportamento scorretto degli amministratori serva a taluni come pretesto per ottenere il risarcimento di pretesi danni che in realtà non si collegano causalmente al comportamento degli amministratori, ma sono il frutto di decisioni poco ponderate o comunque assunte senza alcun concreto riguardo ai fatti di cui si denuncia l’illiceità.

Nel caso di danno al risparmio si potrebbe seguire la via intrapresa dalla dottrina americana la quale, sull’assunto che il prezzo di mercato di una partecipazione sociale è determinato dalle informazioni disponibili, ritiene che qualora l’investitore lamenti una misrepresentation, l’affidamento che merita tutela è quello concernente (non la singola informazione, bensì) la "correttezza" del prezzo; sicché il fatto lesivo a fronte del quale si richiede il risarcimento si esaurisce nella presenza sul mercato (o nella mancanza in esso) di un’informazione dalla quale consegue il riconoscimento che il prezzo non può ritenersi "corretto" (così Angelici, in Note in tema di informazione societaria, in AA.VV. La riforma delle società quotate, Milano 1998, p. 252).

Quanto ai soggetti che abbiano concluso con la società operazioni negoziali perché "determinati" da un bilancio non veritiero, un rilievo decisivo può assumere lo status del creditore. E’ noto, infatti, che sono enormemente diversificate le potenzialità di monitoraggio che hanno le diverse categorie di creditori nei confronti dei debitori. L’attività di monitoraggio, invero, richiede costi e professionalità che solo chi svolge l’attività creditizia è in grado di sostenerne l’onere. E’ usuale, quindi, che le banche prima di finanziare una società ne esaminino i bilanci. Lo stesso esame, di sicuro, non viene compiuto dalla maggior parte dei creditori commerciali. Costoro, del resto, hanno un orizzonte temporale assai breve. Poiché essi si preoccupano soltanto che la società debitrice sia in grado di pagare i debiti correnti giorno per giorno, questi creditori no hanno interesse ad esaminare i bilanci. "Il creditore commerciale" – è stato rilevato da studiosi americani – "misura il tempo in giorni e ore; il suo interesse per l’andamento passato degli affari del debitore è minimo; la sua attenzione per le sottigliezze della contabilità di bilancio è quasi inesistente. Egli vuole denaro contante e lo vuole il prima possibile, non gli importa dove sia finito il danaro contante di cui il debitore ha avuto la disponibilità in passato. Per il creditore commerciale la più importante tutela consiste nel seguire gli eventi, nel conoscere il suo debitore, nel riconoscere velocemente eventuali rallentamenti nei pagamenti, ossia il segno più eloquente di una scrematura del capitale circolante".

Con la responsabilità degli amministratori, dottrina e giurisprudenza ritengono esistente una concorrente responsabilità solidale in capo alla società. Questa responsabilità della società taluno la fa discendere dalla concezione organica della società, in base alla quale essa risponde per gli illeciti dei soggetti "portatori" dei propri organi; altri preferisce applicare il principio dell’art. 2049 c.c. estensivamente inteso, secondo l’interpretazione ormai generalmente affermata.

Qualora la violazione dell’amministratore danneggi contemporaneamente sia il patrimonio sociale, sia "direttamente" quello del socio o del terzo, le diverse azioni di responsabilità (ex artt. 2393, 2394, 2395) possono cumularsi. In queste ipotesi non si tratta di risarcire due volte il medesimo danno, ma di risarcire il duplice danno che gli amministratori abbiano determinato con un unico atto.

 

7 - E’ convincimento diffuso che nel fenomeno societario rilevino soltanto gli interessi dei soci e che non rilevino, invece gli interessi dei soci futuri e dei terzi e neanche quelli dei creditori sociali (Ferri). Si ritiene che la disciplina societaria sia ispirata alla finalità di garantire alla società un’amministrazione efficiente e produttiva e rappresenti il massimo incentivo allo sviluppo nel paese del sistema capitalistico essendo una disciplina preoccupata di garantire primariamente, e talora anche a sacrificio di altri interessi, le finalità produttive dell’impresa. Poiché l’intera gestione sociale è funzionale allo scopo sociale, la violazione da parte degli amministratori degli obblighi conservativi della integrità del patrimonio sociale è vista come un attentato alla capacità produttiva e non come una menomazione della garanzia dei creditori.

Ora, non può dubitarsi che l’interesse dei creditori sociali è preso in esame dalla disciplina della gestione sociale solo in una fase della vita della società: quella della crisi. La disciplina della responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali è volta a garantire l’interesse dei creditori ad essere soddisfatti allorché ci si trovi in fase di contrazione del netto patrimoniale della società. Fuori di questa fase, l’interesse che rileva è solo quello dei soci.

Se allora si considera la diffusa sottocapitalizzazione delle nostre società, la sempre più frequente possibilità di illeciti verso terzi in conseguenza dei rischi tecnologici, non si può orientare la gestione dell’impresa in funzione esclusiva del perseguimento del profitto o considerare la realizzazione o il rispetto di ogni altro valore coinvolto nell’attività di impresa solo in chiave di conciliazione con il fine del profitto. Pensare diversamente, significa consentire all’impresa societaria di prescindere dalla piena sopportazione dei costi della propria attività e di accrescere il rischio di esternalità, che invece andrebbe contenuto. L’attenzione e la cura verso interessi esterni ritenuti preminenti può, allora, compensare una gestione societaria che non sappia massimizzare al meglio il profitto dell’azionista.